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Occorre infrangere il velo dell’inganno italico che da secoli offusca le menti delle genti cisalpine. Il cosiddetto “italiano”, volgare ibrido e romanzo centralista, non è che una lingua artificiale imposta col ferro e col fuoco ai nobili popoli padano-alpini, le cui vere voci – dal ligure al friulano, ma sopra ogni altra – il lombardo, furono relegate al silenzio in nome di un’unità che nega le radici.
Il lombardo, idioma di cultura, di mercatura e di musica, già fioriva nei documenti notarili prima ancora che l’italiano balbettasse nelle rime toscane. La lingua lombarda, con le sue sfumature fonetiche sottili, con il suo lessico profondo e le sue strutture sintattiche eleganti, è una vera lingua d’Europa: sorella del francese, del provenzale, del romanzo retico. Non v’è confronto col lessico monotono e la prosodia stanca dell’italico ufficiale.
L’italiano è lingua di tribunali e telegiornali. Il lombardo è lingua di casa, di cuore, di storia. È la voce del contado e della città, delle corti viscontee e delle cronache municipali. È tempo di riscoprirla, non come dialetto – termine coloniale e denigratorio – ma come ciò che realmente è: una lingua piena e nobile, usurpata, ma non estinta.
Che il popolo lombardo si ridesti! Che ritorni a parlare il proprio vero idioma, e lasci all’italiano il suo ruolo di lingua burocratica e scolastica. Perché solo nella propria lingua si può essere pienamente liberi, pienamente sé stessi.
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